Nessun hashtag per chi sparisce

Traduzione dall’inglese di Claudia Avolio
English

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È stato arrestato insieme a sei dei suoi compagni il 30 dicembre 2013, in un raid delle forze di sicurezza siriane nella loro casa a Damasco. È stato il suo secondo arresto nel giro di altrettanti anni.

Tra i membri fondatori della Gioventù siriana rivoluzionaria, un collettivo di sinistra non-violento della capitale siriana, Imad è stato arrestato la prima volta nel novembre 2012. Quasi tre mesi di detenzione, 37 giorni in cella di isolamento, e torture continue possono portare molti a capitolare. Imad, allora ventiquattrenne e con poca esperienza politica prima della rivolta siriana, è rimasto ben saldo e non si è piegato sotto interrogatorio.

Poco dopo essere stato rilasciato, è partito dalla Siria per l’Egitto. Ma non riusciva a stare lontano dal suo Paese e così ha deciso di tornare.

In quel momento Damasco era in una morsa ancora più stretta di prima: se fare o organizzare azioni di protesta era stato difficilissimo nel 2011 e nel 2012, nel 2013 era diventato praticamente impossibile.

Durante il primo arresto di Imad, i suoi amici hanno creato una pagina Facebook per chiedere la libertà per lui e per i suoi due compagni attivisti della Gioventù rivoluzionaria imprigionati con lui.

Aprire pagine Facebook per chiedere il rilascio di detenuti era una pratica abituale durante i primi due anni della rivolta. L’atto stesso della loro creazione illustrava un cambiamento significativo per un Paese in cui le detenzioni politiche prima della rivolta erano coperte dalla massima segretezza e censura. Ma attestava anche dove erano riusciti ad arrivare i siriani e le varie crepe che erano riusciti ad aprire nel muro di paura del regime un tempo impenetrabile.

E invece la pagina Facebook creata in seguito al secondo arresto di Imad (avvenuto stavolta insieme a sei dei suoi amici) è stata presto rimossa su richiesta dei familiari dei detenuti. Questa volta dicevano di non volere che si facesse rumore né pubblicità. Un dettaglio che sembra piccolo mostra, invece, un nuovo cambiamento di rotta in Siria.

Mentre la rivolta lasciava infine il passo alla guerra civile, le iniziali scintille di speranza e ottimismo sono state represse e si sono tramutate in disperazione assoluta. Quelle crepe che i siriani avevano aperto nel muro impenetrabile erano quasi del tutto svanite, lasciando il passo a una paura ancora più grande: paura persino di dire soltanto che un figlio o una figlia erano stati arrestati, paura di chiederne il rilascio, paura anche soltanto di pronunciare i loro nomi.

Notizie della morte sotto tortura di ognuno degli amici di Imad sono iniziate a trapelare, uno dopo l’altro. In effetti, sei dei sette arrestati quella notte, tra cui lo stesso Imad, sono stati uccisi così.

Non è inusuale che ci sentiamo impotenti quando veniamo a sapere che dei detenuti sono stati torturati a morte in un altro Paese, consapevoli che questo è stato il destino di migliaia di civili dal 2011. Ma l’impotenza assume un significato del tutto nuovo quando le nostre labbra si saldano l’una all’altra per la paura, al punto che siamo incapaci di parlare di quelli che sono stati uccisi, non possiamo onorarne la memoria, piangerne la perdita, rendere loro omaggio, raccontare le loro storie, condividere le loro foto…

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Qui in Palestina, abbiamo l’opportunità di scendere in strada in solidarietà con i prigionieri politici, urlare a squarciagola per loro mentre nel frattempo veniamo raggiunti dai lacrimogeni, ci sparano addosso e veniamo picchiati. Abbiamo anche la possibilità di condividere le storie dei nostri “martiri” e tributar loro l’omaggio che meritano.

In Siria, un Paese governato dalla tirannia della paura e del silenzio, avere un nome è una maledizione da vivi e da morti, e anche condividere le storie e i nomi della maggior parte delle vittime non è mai dato per scontato. Ciò spiega perché non abbiamo potuto scrivere il cognome di Imad e perché così tanti detenuti in Siria, vivi e morti, restano senza nome. Non solo perché sono troppi per essere documentati, ma anche perché a molti anche solo nominarli fa paura.

In tal senso, la sparizione forzata in Siria non prende di mira solo i corpi delle persone, ne colpisce anche i nomi, il ricordo e l’eredità. Priva centinaia di migliaia di persone del loro nome, quasi annichilendo la loro stessa esistenza e strappando ai loro cari ogni prova tangibile cui aggrapparsi dopo la loro morte.

Nel suo saggio su “The New Inquiry”, Genna Brager spiega che la sparizione forzata non è solo un eufemismo per l’omicidio di Stato, ma una “creazione necropolitica di classi usa e getta la cui eliminazione è intrinseca al capitalismo”. La decostruzione che fa Brager dell’apparato di sparizione così come è stato usato in America Latina nel corso degli anni ’70 e ’80 riecheggia nella Siria di Bashar al Asad.

In Siria l’apparato di sparizione forzata non cerca solo di coprire le prove, scagionare i colpevoli e intimidire i sopravvissuti. Funziona anche per sovvenzionare il complesso industriale carcerario del regime siriano. I numerosi servizi di sicurezza e intelligence usano le informazioni di cui sono in possesso come merce di scambio, sviando i famigliari e sfruttandone i bisogni, l’impotenza e la vulnerabilità, obbligandoli infine a pagare milioni di lire siriane per una prova che non arriverà mai.

Paura, silenzio, sfruttamento e intimidazione divengono essenziali al perpetuarsi delle sparizioni forzate come arma efficace nell’arsenale dello Stato contro la gente, contro la classe usa e getta “non desiderata”.

Diventa più che una misura punitiva per ingabbiare dissidenti e reprimere il dissenso. Porta con sé un impatto assai più distruttivo e collettivo, aleggiando costantemente su intere comunità.

Nel contesto siriano, parlare di “detenzione arbitraria” è una stravaganza legale e perfino comparire a un processo-farsa è un lusso.

Non sorprende, dunque, che molti siriani dicano di preferire morire uccisi da un missile o da un colpo di mortaio, piuttosto che finire in carcere. Non solo perché è molto più tollerabile e indolore della morte lenta e quotidiana in prigione, ma anche perché, perfino quando il razzo fa a pezzi il corpo delle vittime, lascia alla famiglia – a differenza della morte sotto tortura – qualcosa da piangere, una prova materiale da afferrare e una bara da seppellire.

Far sparire in modo forzato centinaia di migliaia di persone, ucciderne migliaia sotto tortura e poi telefonare con non curanza ai genitori per dire di andare a prendersi le carte di identità, senza neppure permettere loro di vedere il corpo, è il paradigma di una disumanizzazione sistematica e deliberata. Disumanizzare i detenuti facendoli svanire nel nulla, trasformarli in numeri e scaricarne i corpi in fosse comuni. E al contempo, disumanizzare i loro cari, strappando loro il diritto a compiangerli, a gridare, a dare un ultimo addio, a vedere e conoscere la verità e a porre una fine – per quanto straziante – alla loro agonia.

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Alcuni giorni dopo che Maria è stata arrestata dalle forze di sicurezza siriane, un amico di famiglia ha condiviso la sua foto su Facebook e fatto appello per il suo rilascio. In qualunque altro Paese, si tratterebbe di un atto semplice e inoffensivo. Ma non in Siria. All’amico è stato presto chiesto di rimuovere la foto, perché la sua famiglia aveva paura che anche un post tanto banale potesse avere qualche ripercussione negativa su di lei. Maria è stata per fortuna rilasciata, ma centinaia di migliaia di Maria ancora languiscono nelle prigioni siriane mentre i loro cari non osano neppure chiederne il rilascio.

Un pensiero deve andare a loro ogni volta che scriviamo un hashtag con i nomi di prigionieri. Perché in Siria per le centinaia di migliaia di persone vittime di sparizione forzata non ci saranno mai hashtag e neppure per le loro tragedie.

Nella Siria di Assad le famiglie sono stanche di sperare che i loro cari saranno liberati. Tutto ciò che possono dire, dopo che si stima che 20 mila persone sono state uccise sotto tortura, è “Salvate quelli che rimangono!”. Già sanno che nessuno ascolterà le loro voci spezzate e i loro appelli.

La morte sotto tortura in Siria: gli orrori ignorati dai pacifisti

Budour Hassan
traduzione di Enrico Bartolomei
IngleseArabo

Uno degli aspetti probabilmente più crudeli della guerra del regime siriano contro la popolazione siriana è il successo che ha avuto nel normalizzare la morte e nell’assuefare il mondo ai suoi atroci massacri. Ciò che manca dal bilancio a sei cifre delle vittime sono i volti carbonizzati e le innumerevoli storie dei martiri e delle sofferenze inflitte ai cari che si lasciano alle spalle. Per dirla con un attivista siriano: « Una cosa che non potrò mai perdonare a Bashar al-Assad è l’averci negatola possibilità di soffrire per i nostri amici morti da martiri». In effetti, nel momento in cui l’omicidio di massa si trasforma in un evento spaventosamente frequente che si protrae da due anni e mezzo, il lutto per i caduti è diventato un lusso che la maggior parte dei siriani non può permettersi.

Disumanizzare i siriani

1185902_536320166434214_1540542854_nLa disumanizzazione dei siriani è stata dolorosamente illustrata nel dibattito che seguì l’attacco con armi chimiche del 21 agosto nella campagna di Damasco. Le vittime sono state trattate come semplici note a piè di pagina dalla comunità internazionale, i media mainstream e il campo contro la guerra. Per i governi occidentali che disegnano una « linea rossa » per l’uso di armi chimiche – e per gli interessi di Israele – il sangue rosso dei bambini siriani massacrati con le armi convenzionali dal regime e dalle sue milizie non è abbastanza scandaloso.Tutto il dibattito, come afferma lo scrittore siriano ed ex prigioniero politico Yassin al-Haj Saleh, è sulle armi chimiche e non sul criminale che le ha usate, sulle persone che hanno ucciso, o sul numero di persone ancora maggiore uccise con armi da fuoco.
Nei media mainstream, il popolo siriano viene privato della sua voce e della sua rappresentanza, e la rivoluzione siriana è descritta invece come una « guerra civile » tra due mali: un dittatore laico contro islamisti carnivori e barbuti.Non si è visto o sentito da nessuna parte l’ostinazione stupefacente e la solidarietà comune che ha mantenuto viva la rivoluzione nonostante tutte le avversità; la lotta coraggiosa contro l’ oppressivo « Stato islamico di Iraq e Siria » che controlla gran parte delle zone « liberate » nel nord della Siria; e le continue iniziative popolari e le proteste contro il regime così come contro gli estremisti islamici.
Nel frattempo, per la maggior parte delle coalizioni contro la guerra : « la guerra è la pace e l’ignoranza è forza ». Sventolano fatti banali e false dicotomie per sostenere che tutti i ribelli sono terroristi e che Assad in questo momento non solo sta effettivamente lottando contro imperialismo, ma anche contro il terrorismo. Che Assad abbia condotto negli ultimi 30 mesi una guerra settaria e a tutto campo contro i civili siriani poco importa. Che il suo regime abbia sistematicamente arrestato gli attivisti pacifici e laici, mentre rilasciava i terroristi appartenenti ad al-Qaeda importa meno. E che migliaia di imprigionati siriani, compresi lavoratori, bambini, manifestanti disarmati e organizzatori di comunità sono stati torturati a morte dalle forze del regime fin dall’inizio della rivolta non importa niente.

Ucciso sotto tortura

Ne consegue pertanto che questi attivisti« contro la guerra » ignoreranno una delle ultime vittime della tortura del regime: Khaled Bakrawi, un organizzatore di comunità siropalestinese di 27 anni, membro fondatore della Jafra Foundation for Relief and Youth Development. Khaled è stato arrestato dalle forze di sicurezza del regime nel gennaio 2013 per il ruolo di primo piano che avuto nell’organizzazione e nella realizzazione di attività umanitarie e di aiuto nel campo profughi di Yarmouk .L’ 11 settembre, il comitato di coordinamento di Yarmouk e la Jafra Foundation hanno comunicato che Khaled era stato ucciso sotto tortura in uno dei diversi rami ignobili dell’intelligence a Damasco.

Khaled è nato e cresciuto nel campo profughi di Yarmouk, nella periferia a sud di Damasco . La sua famiglia è stata sradicata dal villaggio palestinese di Loubieh durante la pulizia etnica portata avanti dalle forze di occupazione israeliane nel corso della Nakba del 1948 (la catastrofe palestinese) .
Il 5 giugno 2011, Khaled ha partecipato alla « marcia del ritorno » verso alture delGolan occupate, assistendo in prima persona al modo in cui il Fronte Popolare di Liberazione della Palestina-Comando Generale di Ahmad Jibril [da nonconfondere con il Fronte Popolare di Liberazione della Palestina di Ahmad Sa’adat!,ndt], una milizia palestinese appoggiata dal regime, ha sfruttato il patriottismo e l’entusiasmo della gioventù di Yarmouk istigandola a marciare verso la Palestina occupata nel tentativo di rafforzare la popolarità di Assad e di distogliere l’attenzione dalla repressione continua della rivoluzione al tempo prevalentemente pacifica . Prevedendo una reazione brutale dell’esercito di occupazione israeliano, Khaled ha cercato di dissuadere i giovani disarmati dall’entrare nella zona del cessate il fuoco occupata da Israele, ma senza alcun risultato.Non gli è rimasto che stare a guardare le truppe del regime siriano sorseggiare del tè e osservare con noncuranza i soldati di occupazione israeliani che scaricavano sui manifestanti palestinesi e siriani una pioggia di proiettili. In quella protesta si contarono decine di morti e di feriti. Khaled fu colpito nella coscia da due proiettili.

L’ingiuria di essere trattati come oggetti

Uno degli amici di Khaled, che lo ha visitato in ospedale dopo il suo ferimento,racconta di averlo visto scoppiare in lacrime quando ha ricevuto dei fiori con un foglio che diceva: « Ci hai fatto inorgoglire, tu sei un eroe ». Per Khaled,il sentimento che considera l’infortunio di una persona come fonte di orgoglio nazionale rappresentava un’ulteriore testimonianza della trasformazione offensiva dei siriani in oggetti. E ‘ proprio questo che illustra il motivo principale dello scoppio della sollevazione: vale a dire riconquistare la dignità individuale e collettiva che, per oltre quattro decenni, è stata calpestata da un regime che considerai siriani solamente come strumenti e come oggetti a buon mercato.

Ucciso dal proiettile sbagliato

Molti di coloro che considerarono Khaled Bakrawi come un eroe dopo il suo ferimento permano dell’occupazione israeliana non hanno pronunciato nemmeno una parola di cordoglio dopo la sua morte sotto tortura nelle carceri del regime. Né l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, né alcun altra fazione politica palestinese ha condannato l’uccisione di uno degli attivisti più in vista, simpatici, e laboriosi di Yarmouk. Né hanno protestato contro l’uccisione sotto tortura di altri tre prigionieri palestinesi negli ultimi cinque giorni.Sembra che per loro un palestinese è degno del titolo di « martire » solo se viene ucciso dall’occupazione sionista . Avere la sfortuna di essere ucciso dal regime di Assad « anti- imperialista » e «pro-resistenza » rende accettabile l’ uccisione, e l’ucciso non meritevole di commiserazione.
Neanche il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP) è riuscito a rendere omaggio al profugo e martire palestinese Anas Amara, un ragazzo di 23 anni,studente di legge, residente a Yarmouk, e attivista del FPLP fin dall’età di nove anni. Anas, un comunista rivoluzionario che ha preso le distanze dalla sinistra borghese riformista e ha partecipato alla rivoluzione siriana fin dal suo inizio, è stato ucciso dal regime in un agguato vicino al campo assediato di Yarmouk nel mese di aprile di quest’anno . E ‘ stato ucciso , per così dire, dal « proiettile sbagliato », poiché la sua uccisione non suscita l’indignazione di coloro che pretendono di difendere la causa palestinese .

Silenzio assordante

Il silenzio assordante proveniente dalla leadership palestinese, così come dallaUnited Nations Relief and Works Agency for Palestine Refugees in the Near East (UNRWA) sulla grave condizione dei profughi palestinesi in Siria non sorprende affatto. Yarmouk, il più grande campo profughi palestinese della Siria , è rimasto sotto l’assedio soffocante dell’Esercito Arabo Siriano dal luglio 2013. I 70.000 civili intrappolati a Yarmouk sono stati privati dell’ accesso all’elettricità e al cibo. Per sopravvivere , alcuni sono arrivati a cibarsi dei cani. Nonostante i numerosi appelli dei residenti Yarmouk e degli attivisti siriani per rompere l’assedio al campo, ormai sull’orlo di una catastrofe umanitaria, la leadership palestinese e l’UNRWA non hanno risposto a una di queste suppliche .
Ugualmente ignorati sono gli appelli dei gruppi palestinesi in Siria per la liberazione dei detenuti palestinesi nelle carceri del regime siriano. Anch’essi, come le loro sorelle e fratelli siriani, stanno affrontando un pericolo imminente per la loro vita. Ma come se le punizioni collettive, gli arresti arbitrari, l’assedio severo e i costanti bombardamenti del regime non fossero abbastanza, i palestinesi e i siriani devono combattere su un altro fronte: il 12 settembre gli estremisti islamici hanno rapito Wassim Meqdad, attivista, musicista, e uno dei due soli medici che curavano i feriti nel campo di Yarmouk.

Crimini di guerra

Qualsiasi coalizione o organizzazione che sostiene di lottare per la pace e i diritti umani, ma non condanna chiaramente i crimini di guerra e i crimini control’umanità perpetrati dal regime siriano, non può considerarsi un movimento genuinamente a favore della pace . La parola « pace » , dopo tutto , è stata svuotata del suo vero significato grazie a tutti i guerrafondai che sostengono di promuovere proprio la pace. E mentre questo potrebbe essere un termine da recuperare poiché opporsi alla guerra è una posizione etica e nobile, farlo senza opporsi esplicitamente al regime siriano e all’intervento iraniano – russo , e senza schierarsi al fianco della rivoluzione del popolo siriano per la libertà e la dignità, sarebbe una posizione al tempo stesso moralmente e politicamente fallimentare.
E’cinicamente ironico che i gruppi contro la guerra tacciano sulla tortura mortale di oltre 2.000 prigionieri politici siriani mentre protestano insieme ai sostenitori del regime siriano e gli islamofobi di destra contro un potenziale attacco degli Stati Uniti in Siria. Dato che questi gruppi pacifisti( giustamente ) biasimano a gran voce i governi occidentali per la loro ipocrisia, dovrebbero fermarsi un secondo a riflettere sulla propria ipocrisia nell’aver abbandonato la rivoluzione siriana fin dal primo giorno, molto tempo prima che fosse militarizzata. Inoltre, si raccomanda vivamente che leggano «Note sul nazionalismo » di George Orwell, poiché molti di questi attivisti contro la guerra a parole si adattano alla categoria nazionalista e pacifista che Orwell ha così criticato :

« C’è una minoranza di intellettuali pacifisti il cui reale, benchè non dichiarato, motivo sembra essere l’odio della democrazia occidentale e l’ammirazione per il totalitarismo. La propaganda pacifista di solito si limita a dire che una parte è cattiva come l’altra, ma se si guarda più attentamente agli scritti dei giovani intellettuali pacifisti,si scopre che essi non esprimono in alcun modo disapprovazione imparziale, ma sono diretti quasi interamente contro la Gran Bretagna e gli Stati Uniti. Inoltre, di regola, essi non condannano la violenza in quanto tale, ma solo la violenza usata in difesa dei paesi occidentali» .

Nel caso siriano , questi pacifisti cercano di nascondere la propria posizione con ovvietà sulla pace e la neutralità , e se da una parte concentrano le loro energie nell’opposizione a una potenziale guerra degli Stati Uniti in Siria, dall’altro condonano la guerra reale lanciata dal regime siriano. Anche se gli auto-proclamati« antimperialisti » pacifisti sostengono di essere contro l’intervento in principio, di fatto si oppongono solo all’intervento occidentale in Siria mentre non dicono nulla sull’intervento molto più flagrante e aggressivo dell’Iran e della Russia. Mentre è comprensibile che la priorità venga assegnata all’opposizione nei confronti degli abusi del proprio governo, questo non giustifica che si sostenga un regime genocida, si sottovaluti i suoi crimini, e si volti le spalle alla lotta eroica del popolo siriano. Perché sono le lotte contro il totalitarismo, come è ben noto ad ogni persona « di sinistra » degna di questo nome, che esistono come fronti nascenti nella lotta più generale per un’umanità globale che vive e muore calpestata sotto il loro giogo e i loro oltraggi.

Palestina: La gabbia delle donne, tra Occupazione e patriarcato

Italian version of my article about Palestinian women
Translated
by Stefano Nanni

Nei Territori Occupati e in Israele aumentano i casi di violenza contro le donne palestinesi. La blogger Budour Hassan dipinge un quadro allarmante: “Finché saremo costrette a mettere da parte le rivendicazioni di genere continueremo ad essere uccise nell’impunità, semplicemente per il fatto di essere donne”.

In una calda e splendente domenica mattina, il piccolo Saqer, 3 anni, era tra le braccia di sua madre quando è stata ripetutamente colpita da proiettili alla testa e al petto.

Tremante, scompigliato e macchiato di sangue, Saqer si è trascinato fino alla casa di un vicino, senza riuscire a pronunciare una parola.

Sua madre, Mona Mahajneh, era appena stata freddata di fronte ai suoi occhi; al momento l’unico sospettato è il fratello di lei, la cui detenzione è stata prolungata per permettere alle indagini di proseguire nella ricerca dell’assassino.

Mahajneh, 30 anni, madre di tre figli e originaria di Umm al-Fahm, nel triangolo Nord  (area del distretto di Haifa abitata in prevalenza da arabi israeliani, ndt), è l’ultima martire palestinese della violenza domestica nei Territori occupati dalle milizie sioniste nel 1948 (a cui in seguito mi riferirò con la formula ‘all’interno della Linea Verde’, il confine di Israele riconosciuto a livello internazionale in seguito all’armistizio).

Aveva provato a rifarsi una vita dopo il divorzio nonostante si fosse separata da due dei suoi figli.

Ma in una società patriarcale in cui le donne divorziate vengono spesso disumanizzate e trattate come piaghe sociali, Mona ha pagato con la vita il prezzo della libertà e dell’indipendenza che aveva scelto.

UNA TRAGICA IRONIA

Per ironia della sorte, Mona è stata uccisa soltanto due giorni dopo l’organizzazione di una protesta contro il cosiddetto “delitto d’onore”.

Il 26 aprile scorso il Committee Against Women Killings (Comitato contro l’uccisione delle donne), una coalizione di 20 gruppi femministi palestinesi, ha organizzato due manifestazioni separate.

Chiamate “le processioni della vita”, le proteste chiedevano che si ponesse fine al fenomeno dei crimini “d’onore”. 

Due cortei di automobili si sono riuniti in una manifestazione congiunta a Kafr Qare’, nei pressi di Umm al-Fahm. Hanno attraversato tanti villaggi, da nord a sud, mandando un messaggio esplicito contro la violenza di genere in tutta la Palestina.

Dalle macchine sono stati esposti cartelli con i nomi delle donne uccise da membri delle loro stesse famiglie, così come manifesti e scritte: “Non c’è alcun onore nei delitti d’onore” ed “è stata uccisa perché donna“.

La grande partecipazione e l’impressionante attenzione mediatica che hanno ricevuto le proteste, tuttavia, non sono riuscite ad evitare l’assassinio di Mona.

Non è la prima volta che una donna palestinese viene uccisa subito dopo una protesta contro la violenza di genere.

Lo scorso 10 marzo Alaa Shami, 21 anni, è stata assassinata da una pugnalata infertale dal fratello nella città di Ibilline, a nord, soltanto due giorni dopo la Giornata Internazionale della Donna.

Il 7 febbraio 2010 Bassel Sallam ha sparato contro sua moglie, Hala Faysal, e l’ha lasciata esangue sul letto. Soltanto qualche ora prima il padre di lui, Ali Sallam, vice-sindaco di Nazareth, aveva partecipato a una dimostrazione contro la violenza sulle donne, facendo un importante discorso di denuncia.

UN PICCO IMPRESSIONANTE

Sei donne palestinesi che sono state uccise all’interno della Linea Verde nel corso del 2013, due in più rispetto al 2012.

Le statistiche fornite dall’organizzazione di Nazareth “Women Against Violence” mostrano un quadro ancor più preoccupante: da quando Israele ha ratificato la Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (CEDAW) nel 1991, 162 palestinesi sono state uccise dai loro mariti o da altri membri della famiglia.

Dal 1986, 35 donne sono morte in questo modo soltanto nei villaggi di al-Lydd e Ramleh. I numeri di “Women Against Violence” dimostrano anche che la maggior parte delle donne uccise In Israele sono palestinesi.

Nel 2011, ad esempio, su 14 vittime, 9 erano palestinesi. Nel 2010 la relazione era 10 su 15; l’anno precedente 9 su 11 e contemporaneamente nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania venivano ammazzate 13 donne palestinesi.

E’ difficile ottenere  dati precisi riguardo gli omicidi di genere nei Territori Occupati, dal momento che non tutti i casi sono riportati dai media. Ma la situazione non è certo meno allarmante che in Israele.

UNA VIOLENZA DE-POLITICIZZATA

Una recente e importante iniziativa contro la violenza sulle donne e in particolare contro il “delitto d’onore” è rappresentata dal video musicale “If I could go back in time” (“Se potessi tornare indietro”), pubblicato nel novembre 2012 dal gruppo hip hop palestinese DAM.

Il video, co-diretto da Jackie Salloum e finanziato dall’agenzia delle Nazioni Unite UN Women, ha registrato più di 200 mila visualizzazioni e ricevuto un feedback positivo non solo in Palestina.

Eppure ha un aspetto negativo non indifferente, dal momento che ritrae la violenza contro le donne come depoliticizzata e, invece di approfondire la questione, la riduce a un dramma meramente populista.

Come hanno scritto Lila Abu Lughod e Maya Mikdashi “il video opera all’interno di un vuoto politico, giuridico e storico totale”.

Quando si parla di violenza contro le donne in Medio Oriente in generale, e in Palestina in particolare, ci sono due paradigmi dominanti e completamente opposti.

Il primo considera la violenza come prodotto di una tradizione e di una società arretrate e intrinsecamente misogine, scegliendo di concentrarsi esclusivamente sulla categoria dei “delitti d’onore”, come se questi rappresentassero l’unica forma di violenza domestica a cui le donne sono sottoposte.

L’altro, per contro, ritiene responsabile il colonialismo israeliano e la sua discriminazione istituzionalizzata, sostenendo che non ci si possa aspettare che le donne siano libere fintanto che la Palestina sarà sotto occupazione.

Entrambi i paradigmi sono ovviamente troppo semplicistici e non rappresentativi di una realtà ben più complessa. Tutti e due infatti evitano di rispondere a domande difficili, e ignorano la realtà politica che le donne palestinesi affrontano nella vita di tutti i giorni.

Bloccati tra l’incudine e il martello, i movimenti femministi arabi borghesi – tra cui quello cisgiordano –  si sono dati la zappa sui piedi scegliendo di allearsi con regimi tirannici al fine di promuovere i diritti sociali delle donne attraverso il processo legislativo.

Stando al fianco delle autorità e all’interno delle strutture di potere, hanno agito da copertura per le cosiddette dittature “laiche”.

Inoltre, optando per una lotta “femminista” elitaria e apolitica, le femministe borghesi hanno ignorato che il vero cambiamento sociale non può essere realizzato in assenza di libertà politica, né può essere raggiunto prostrandosi ai piedi di un sistema repressivo.

Femminismo non significa soltanto lotta per la parità di genere, ma scuotere le dinamiche egemoniche di potere e di dominio. 

La subordinazione di genere è un fattore fondamentale in questa matrice di potere, ma si interseca con l’oppressione politica e lo sfruttamento sulla base di parametri come classe, religione, etnia, abilità fisica e aspetti connessi all’identità personale.

Nonostante i suoi tanti problemi e le sue carenze strutturali, il movimento femminista all’interno della Linea Verde ha avuto tuttavia il merito di comprendere subito che la sfera personale non può essere separata da quella politica, proprio perché lo Stato israeliano ha un ruolo attivo nell’emarginare le donne palestinesi rafforzando gli elementi patriarcali locali (come i capi clan e i tribunali religiosi) che opprimono le donne.

La maggior parte delle femministe palestinesi non si sono mai illuse sul fatto che l’avanzamento dei diritti di genere arrivare dalla Knesset, il Parlamento sionista.

SENZA PROTEZIONE

E’ ingenuo credere che la polizia – un organo dello Stato violento, militarista e intrinsecamente patriarcale – si possa realmente impegnare nella lotta contro la violenza sulle donne.

Ed è ancora più ingenuo pensare che la polizia israeliana – uno strumento di applicazione di un sistema legislativo che favorisce l’Occupazione – possa decidere di abolire la violenza contro le donne palestinesi senza essere sottoposta a forti pressioni. 

Le storie di donne palestinesi che si sono rivolte alla polizia israeliana in seguito a minacce e violenze subite da parte dei loro familiari, per essere respinte e poi, successivamente, uccise, sono troppe da raccontare.

Qualche mese fa, a Rahat, la più grande città palestinese nel Naqab, una giovane donna si è recata all’ufficio dei servizi sociali e, secondo quanto è stato riferito, ha informato gli agenti sul fatto che temeva per la sua vita.

La polizia le ha detto di tornare a casa, assicurandole che sarebbe stata al sicuro. Quasi 24 ore dopo, è stata ritrovata morta.

L’ultimo incidente è avvenuto il 21 maggio 2013. Due bambine, di tre e cinque anni, sono state strangolate a morte nella loro casa di Fura’a, un villaggio palestinese non riconosciuto nel Naqab.

Eppure la loro madre aveva raggiunto la stazione di polizia più vicina, nei pressi della colonia ebraica di Arad, e aveva denunciato il fatto che suo marito le avesse già minacciate di morte. La sua richiesta di aiuto però è stata ignorata.

Questi terribili eventi mostrano chiaramente la perfetta unione tra lo Stato – una entità di per sé maschilista – e gli elementi patriarcali conservatori della comunità in cui viviamo.

La polizia israeliana tratta la violenza domestica che si manifesta all’interno della minoranza palestinese come un “affare privato”, la cui risoluzione deve essere lasciata nelle mani del clan e dei suoi leader.

E’ molto più comodo per le forze dell’ordine collegare la violenza domestica contro le donne palestinesi alle questioni di “onore” e, quindi, esimersi dalla responsabilità di intervenire con il pretesto del rispetto della “sensibilità culturale”.

Un pretesto che serve a Israele per giustificare la mancanza del rispetto dei diritti delle donne, e che nasce dalla presunzione razzista che l’abuso e l’oppressione di genere siano intrinsecamente legati alla cultura e alla tradizione palestinese. 

Quando, in realtà, deriva dal doppio standard che Israele adotta nel rispettare e proteggere le diversità culturali.

Da una parte infatti afferma di rispettare il principio del multiculturalismo per rinforzare e sostenere l’oppressione delle donne. Dall’altra, mostra poco rispetto per questo stesso principio quando si tratta del riconoscimento dei diritti delle minoranze.

Lo status dell’arabo come lingua ufficiale è solo inchiostro su carta; la cultura, la storia, la narrativa, la letteratura e la politica palestinesi sono volutamente assenti nei programmi scolastici israeliani.  E la memoria collettiva si forma a partire dai costanti tentativi di “israelianizzazione”.

Il comportamento della stessa polizia israeliana è emblematico: elude il suo dovere di proteggere le donne dalla violenza domestica perché è un affare di “famiglia”, ma non ha la preoccupazione degli “affari di famiglia palestinesi” quando le sue forze demoliscono regolarmente case e costringono intere famiglie nel Naqab al trasferimento forzato.

Ad essere disperatamente assente in questo contesto non è solo la protezione, ma soprattutto la responsabilità.

La maggior parte dei casi di violenza contro le donne vengono chiusi per mancanza di prove o per scarso interesse pubblico. Anche se Israele, a differenza di molti Stati arabi, non ha nel proprio Codice penale provvedimenti che mitighino la punizione per i cosiddetti “delitti d’onore”, le organizzazioni per i diritti delle donne hanno ripetutamente accusato la polizia di non fare abbastanza per identificare i colpevoli di omicidio e renderli responsabili delle loro azioni.

Alcuni dei peggiori casi di violenza contro le donne si verificano in Lydd, Ramleh e nel Naqab. Quei luoghi vantano, tra l’altro, alcuni dei più alti tassi di povertà e disoccupazione, e al tempo stesso sono sottoposti ad una precisa politica israeliana di estrema discriminazione, negazione dei diritti e dei servizi di base, e di continue minacce di sfratto e di demolizione delle case.

A ciò bisogna aggiungere l’inaccessibilità del sistema giudiziario israeliano per le donne palestinesi, considerate non-privilegiate, e la riprovazione sociale che devono affrontare se decidono di rivolgersi alla polizia accusando i loro stessi familiari. 

Non deve sorprendere, quindi, che le donne palestinesi non ripongano alcuna fiducia nei confronti di quello Stato che dovrebbe proteggerle.

TACITE GIUSTIFICAZIONI

L’origine di questa situazione è l’enorme differenza che intercorre tra la copertura mediatica di un uccisione di un uomo e quella di un caso analogo nei confronti di una donna: la prima è spesso definita come una “tragedia”, mentre la seconda viene considerata un “incidente ambiguo”.

Quando ai politici, ai leader religiosi e alle figure pubbliche palestinesi viene chiesta una presa di posizione contro la violenza di genere, per prima cosa accusano la polizia, per poi ribadire che la violenza contro le donne è parte integrante della crescente violenza generale all’interno della comunità palestinese.

Difficilmente passa un giorno senza la notizia di una sparatoria o di incidenti che coinvolgono uomini palestinesi in diverse città.

La violenza è così pervasiva che lo scorso 7 maggio circa 10 mila manifestanti hanno riempito le strade di Haifa – una delle più grandi manifestazioni nella storia della città -, semplicemente per dire ‘basta’.

Chi confonde la violenza di genere con la violenza generale ignora la realtà: le donne vengono assassinate semplicemente per il fatto di essere donne.

E, soprattutto, vengono uccise in luoghi e da persone che dovrebbero essere più sicuri e in più stretta intimità con loro.

Esprimere condanne e chiedere il rispetto dei diritti delle donne subito dopo che una di loro viene uccisa per poi dimenticarla completamente due giorni dopo, ormai è di moda. Si attende soltanto il prossimo omicidio.

Definire gli omicidi di genere come manifestazione del patriarcato è appena un eufemismo. Il problema di fondo, di cui si parla poco, è molto più radicato.

La condanna retorica e ‘stagionale’ da parte di coloro che promuovono – o tacciono – su forme meno evidenti di patriarcato aiuta a spiegare il fallimento della società nel suo insieme nel prendere una posizione ferma sui crimini contro le donne, per non parlare di prevenirli (…).

Misoginia e patriarcato non sono in alcun modo un’esclusiva dei palestinesi, soprattutto dei religiosi e dei conservatori.

Molti attivisti e politici di sinistra non esitano ad usare un linguaggio sessista, a dare implicite giustificazioni alle molestie sessuali, o a pretendere che la lotta per i diritti di genere non sia una priorità fintanto che saremo sottoposti all’Occupazione israeliana.

Come potremmo mai essere libere, in quanto donne e palestinesi, quando i leader della resistenza popolare sono coinvolti in atti di molestia sessuale e tutto questo viene messo a tacere?

Finché le donne palestinesi saranno costrette a tenere le loro richieste di liberazione di genere ai margini, e finché non sarà una grande parte della popolazione ad ammettere che le donne sono strutturalmente oppresse, noi continueremo ad essere uccise nell’impunità sociale e legale.

Un primo passo verso la sfida del lessico egemonico patriarcale locale e coloniale sarebbe smettere di usare il termine “delitti d’onore”, anche con le virgolette. Il suo uso legittima il concetto e fornisce il falso pretesto che sia “l’onore” il vero movente del delitto, quando in realtà è solo un modo per privare le donne di autonomia e dignità.

Il secondo passo è quello di parlare: silenzio vuol dire complicità. 

Spazzare le verità scomode sotto il tappeto non servirà a nasconderle, ma solo a rendere la loro forza più brutale e intensificare il ciclo di violenza che ha letteralmente distrutto la vita di un gran numero di donne nel tempo.

Il terzo, e più importante, è di non aspettare che sia la polizia a proteggerci. Le donne dovrebbero proteggere se stesse organizzando gruppi di strada per combattere le molestie sessuali.