Italian version of my article about Palestinian women
Translated by Stefano Nanni
Nei Territori Occupati e in Israele aumentano i casi di violenza contro le donne palestinesi. La blogger Budour Hassan dipinge un quadro allarmante: “Finché saremo costrette a mettere da parte le rivendicazioni di genere continueremo ad essere uccise nell’impunità, semplicemente per il fatto di essere donne”.
In una calda e splendente domenica mattina, il piccolo Saqer, 3 anni, era tra le braccia di sua madre quando è stata ripetutamente colpita da proiettili alla testa e al petto.
Tremante, scompigliato e macchiato di sangue, Saqer si è trascinato fino alla casa di un vicino, senza riuscire a pronunciare una parola.
Sua madre, Mona Mahajneh, era appena stata freddata di fronte ai suoi occhi; al momento l’unico sospettato è il fratello di lei, la cui detenzione è stata prolungata per permettere alle indagini di proseguire nella ricerca dell’assassino.
Mahajneh, 30 anni, madre di tre figli e originaria di Umm al-Fahm, nel triangolo Nord (area del distretto di Haifa abitata in prevalenza da arabi israeliani, ndt), è l’ultima martire palestinese della violenza domestica nei Territori occupati dalle milizie sioniste nel 1948 (a cui in seguito mi riferirò con la formula ‘all’interno della Linea Verde’, il confine di Israele riconosciuto a livello internazionale in seguito all’armistizio).
Aveva provato a rifarsi una vita dopo il divorzio nonostante si fosse separata da due dei suoi figli.
Ma in una società patriarcale in cui le donne divorziate vengono spesso disumanizzate e trattate come piaghe sociali, Mona ha pagato con la vita il prezzo della libertà e dell’indipendenza che aveva scelto.
UNA TRAGICA IRONIA
Per ironia della sorte, Mona è stata uccisa soltanto due giorni dopo l’organizzazione di una protesta contro il cosiddetto “delitto d’onore”.
Il 26 aprile scorso il Committee Against Women Killings (Comitato contro l’uccisione delle donne), una coalizione di 20 gruppi femministi palestinesi, ha organizzato due manifestazioni separate.
Chiamate “le processioni della vita”, le proteste chiedevano che si ponesse fine al fenomeno dei crimini “d’onore”.
Due cortei di automobili si sono riuniti in una manifestazione congiunta a Kafr Qare’, nei pressi di Umm al-Fahm. Hanno attraversato tanti villaggi, da nord a sud, mandando un messaggio esplicito contro la violenza di genere in tutta la Palestina.
Dalle macchine sono stati esposti cartelli con i nomi delle donne uccise da membri delle loro stesse famiglie, così come manifesti e scritte: “Non c’è alcun onore nei delitti d’onore” ed “è stata uccisa perché donna“.
La grande partecipazione e l’impressionante attenzione mediatica che hanno ricevuto le proteste, tuttavia, non sono riuscite ad evitare l’assassinio di Mona.
Non è la prima volta che una donna palestinese viene uccisa subito dopo una protesta contro la violenza di genere.
Lo scorso 10 marzo Alaa Shami, 21 anni, è stata assassinata da una pugnalata infertale dal fratello nella città di Ibilline, a nord, soltanto due giorni dopo la Giornata Internazionale della Donna.
Il 7 febbraio 2010 Bassel Sallam ha sparato contro sua moglie, Hala Faysal, e l’ha lasciata esangue sul letto. Soltanto qualche ora prima il padre di lui, Ali Sallam, vice-sindaco di Nazareth, aveva partecipato a una dimostrazione contro la violenza sulle donne, facendo un importante discorso di denuncia.
UN PICCO IMPRESSIONANTE
Sei donne palestinesi che sono state uccise all’interno della Linea Verde nel corso del 2013, due in più rispetto al 2012.
Le statistiche fornite dall’organizzazione di Nazareth “Women Against Violence” mostrano un quadro ancor più preoccupante: da quando Israele ha ratificato la Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (CEDAW) nel 1991, 162 palestinesi sono state uccise dai loro mariti o da altri membri della famiglia.
Dal 1986, 35 donne sono morte in questo modo soltanto nei villaggi di al-Lydd e Ramleh. I numeri di “Women Against Violence” dimostrano anche che la maggior parte delle donne uccise In Israele sono palestinesi.
Nel 2011, ad esempio, su 14 vittime, 9 erano palestinesi. Nel 2010 la relazione era 10 su 15; l’anno precedente 9 su 11 e contemporaneamente nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania venivano ammazzate 13 donne palestinesi.
E’ difficile ottenere dati precisi riguardo gli omicidi di genere nei Territori Occupati, dal momento che non tutti i casi sono riportati dai media. Ma la situazione non è certo meno allarmante che in Israele.
UNA VIOLENZA DE-POLITICIZZATA
Una recente e importante iniziativa contro la violenza sulle donne e in particolare contro il “delitto d’onore” è rappresentata dal video musicale “If I could go back in time” (“Se potessi tornare indietro”), pubblicato nel novembre 2012 dal gruppo hip hop palestinese DAM.
Il video, co-diretto da Jackie Salloum e finanziato dall’agenzia delle Nazioni Unite UN Women, ha registrato più di 200 mila visualizzazioni e ricevuto un feedback positivo non solo in Palestina.
Eppure ha un aspetto negativo non indifferente, dal momento che ritrae la violenza contro le donne come depoliticizzata e, invece di approfondire la questione, la riduce a un dramma meramente populista.
Come hanno scritto Lila Abu Lughod e Maya Mikdashi “il video opera all’interno di un vuoto politico, giuridico e storico totale”.
Quando si parla di violenza contro le donne in Medio Oriente in generale, e in Palestina in particolare, ci sono due paradigmi dominanti e completamente opposti.
Il primo considera la violenza come prodotto di una tradizione e di una società arretrate e intrinsecamente misogine, scegliendo di concentrarsi esclusivamente sulla categoria dei “delitti d’onore”, come se questi rappresentassero l’unica forma di violenza domestica a cui le donne sono sottoposte.
L’altro, per contro, ritiene responsabile il colonialismo israeliano e la sua discriminazione istituzionalizzata, sostenendo che non ci si possa aspettare che le donne siano libere fintanto che la Palestina sarà sotto occupazione.
Entrambi i paradigmi sono ovviamente troppo semplicistici e non rappresentativi di una realtà ben più complessa. Tutti e due infatti evitano di rispondere a domande difficili, e ignorano la realtà politica che le donne palestinesi affrontano nella vita di tutti i giorni.
Bloccati tra l’incudine e il martello, i movimenti femministi arabi borghesi – tra cui quello cisgiordano – si sono dati la zappa sui piedi scegliendo di allearsi con regimi tirannici al fine di promuovere i diritti sociali delle donne attraverso il processo legislativo.
Stando al fianco delle autorità e all’interno delle strutture di potere, hanno agito da copertura per le cosiddette dittature “laiche”.
Inoltre, optando per una lotta “femminista” elitaria e apolitica, le femministe borghesi hanno ignorato che il vero cambiamento sociale non può essere realizzato in assenza di libertà politica, né può essere raggiunto prostrandosi ai piedi di un sistema repressivo.
Femminismo non significa soltanto lotta per la parità di genere, ma scuotere le dinamiche egemoniche di potere e di dominio.
La subordinazione di genere è un fattore fondamentale in questa matrice di potere, ma si interseca con l’oppressione politica e lo sfruttamento sulla base di parametri come classe, religione, etnia, abilità fisica e aspetti connessi all’identità personale.
Nonostante i suoi tanti problemi e le sue carenze strutturali, il movimento femminista all’interno della Linea Verde ha avuto tuttavia il merito di comprendere subito che la sfera personale non può essere separata da quella politica, proprio perché lo Stato israeliano ha un ruolo attivo nell’emarginare le donne palestinesi rafforzando gli elementi patriarcali locali (come i capi clan e i tribunali religiosi) che opprimono le donne.
La maggior parte delle femministe palestinesi non si sono mai illuse sul fatto che l’avanzamento dei diritti di genere arrivare dalla Knesset, il Parlamento sionista.
SENZA PROTEZIONE
E’ ingenuo credere che la polizia – un organo dello Stato violento, militarista e intrinsecamente patriarcale – si possa realmente impegnare nella lotta contro la violenza sulle donne.
Ed è ancora più ingenuo pensare che la polizia israeliana – uno strumento di applicazione di un sistema legislativo che favorisce l’Occupazione – possa decidere di abolire la violenza contro le donne palestinesi senza essere sottoposta a forti pressioni.
Le storie di donne palestinesi che si sono rivolte alla polizia israeliana in seguito a minacce e violenze subite da parte dei loro familiari, per essere respinte e poi, successivamente, uccise, sono troppe da raccontare.
Qualche mese fa, a Rahat, la più grande città palestinese nel Naqab, una giovane donna si è recata all’ufficio dei servizi sociali e, secondo quanto è stato riferito, ha informato gli agenti sul fatto che temeva per la sua vita.
La polizia le ha detto di tornare a casa, assicurandole che sarebbe stata al sicuro. Quasi 24 ore dopo, è stata ritrovata morta.
L’ultimo incidente è avvenuto il 21 maggio 2013. Due bambine, di tre e cinque anni, sono state strangolate a morte nella loro casa di Fura’a, un villaggio palestinese non riconosciuto nel Naqab.
Eppure la loro madre aveva raggiunto la stazione di polizia più vicina, nei pressi della colonia ebraica di Arad, e aveva denunciato il fatto che suo marito le avesse già minacciate di morte. La sua richiesta di aiuto però è stata ignorata.
Questi terribili eventi mostrano chiaramente la perfetta unione tra lo Stato – una entità di per sé maschilista – e gli elementi patriarcali conservatori della comunità in cui viviamo.
La polizia israeliana tratta la violenza domestica che si manifesta all’interno della minoranza palestinese come un “affare privato”, la cui risoluzione deve essere lasciata nelle mani del clan e dei suoi leader.
E’ molto più comodo per le forze dell’ordine collegare la violenza domestica contro le donne palestinesi alle questioni di “onore” e, quindi, esimersi dalla responsabilità di intervenire con il pretesto del rispetto della “sensibilità culturale”.
Un pretesto che serve a Israele per giustificare la mancanza del rispetto dei diritti delle donne, e che nasce dalla presunzione razzista che l’abuso e l’oppressione di genere siano intrinsecamente legati alla cultura e alla tradizione palestinese.
Quando, in realtà, deriva dal doppio standard che Israele adotta nel rispettare e proteggere le diversità culturali.
Da una parte infatti afferma di rispettare il principio del multiculturalismo per rinforzare e sostenere l’oppressione delle donne. Dall’altra, mostra poco rispetto per questo stesso principio quando si tratta del riconoscimento dei diritti delle minoranze.
Lo status dell’arabo come lingua ufficiale è solo inchiostro su carta; la cultura, la storia, la narrativa, la letteratura e la politica palestinesi sono volutamente assenti nei programmi scolastici israeliani. E la memoria collettiva si forma a partire dai costanti tentativi di “israelianizzazione”.
Il comportamento della stessa polizia israeliana è emblematico: elude il suo dovere di proteggere le donne dalla violenza domestica perché è un affare di “famiglia”, ma non ha la preoccupazione degli “affari di famiglia palestinesi” quando le sue forze demoliscono regolarmente case e costringono intere famiglie nel Naqab al trasferimento forzato.
Ad essere disperatamente assente in questo contesto non è solo la protezione, ma soprattutto la responsabilità.
La maggior parte dei casi di violenza contro le donne vengono chiusi per mancanza di prove o per scarso interesse pubblico. Anche se Israele, a differenza di molti Stati arabi, non ha nel proprio Codice penale provvedimenti che mitighino la punizione per i cosiddetti “delitti d’onore”, le organizzazioni per i diritti delle donne hanno ripetutamente accusato la polizia di non fare abbastanza per identificare i colpevoli di omicidio e renderli responsabili delle loro azioni.
Alcuni dei peggiori casi di violenza contro le donne si verificano in Lydd, Ramleh e nel Naqab. Quei luoghi vantano, tra l’altro, alcuni dei più alti tassi di povertà e disoccupazione, e al tempo stesso sono sottoposti ad una precisa politica israeliana di estrema discriminazione, negazione dei diritti e dei servizi di base, e di continue minacce di sfratto e di demolizione delle case.
A ciò bisogna aggiungere l’inaccessibilità del sistema giudiziario israeliano per le donne palestinesi, considerate non-privilegiate, e la riprovazione sociale che devono affrontare se decidono di rivolgersi alla polizia accusando i loro stessi familiari.
Non deve sorprendere, quindi, che le donne palestinesi non ripongano alcuna fiducia nei confronti di quello Stato che dovrebbe proteggerle.
TACITE GIUSTIFICAZIONI
L’origine di questa situazione è l’enorme differenza che intercorre tra la copertura mediatica di un uccisione di un uomo e quella di un caso analogo nei confronti di una donna: la prima è spesso definita come una “tragedia”, mentre la seconda viene considerata un “incidente ambiguo”.
Quando ai politici, ai leader religiosi e alle figure pubbliche palestinesi viene chiesta una presa di posizione contro la violenza di genere, per prima cosa accusano la polizia, per poi ribadire che la violenza contro le donne è parte integrante della crescente violenza generale all’interno della comunità palestinese.
Difficilmente passa un giorno senza la notizia di una sparatoria o di incidenti che coinvolgono uomini palestinesi in diverse città.
La violenza è così pervasiva che lo scorso 7 maggio circa 10 mila manifestanti hanno riempito le strade di Haifa – una delle più grandi manifestazioni nella storia della città -, semplicemente per dire ‘basta’.
Chi confonde la violenza di genere con la violenza generale ignora la realtà: le donne vengono assassinate semplicemente per il fatto di essere donne.
E, soprattutto, vengono uccise in luoghi e da persone che dovrebbero essere più sicuri e in più stretta intimità con loro.
Esprimere condanne e chiedere il rispetto dei diritti delle donne subito dopo che una di loro viene uccisa per poi dimenticarla completamente due giorni dopo, ormai è di moda. Si attende soltanto il prossimo omicidio.
Definire gli omicidi di genere come manifestazione del patriarcato è appena un eufemismo. Il problema di fondo, di cui si parla poco, è molto più radicato.
La condanna retorica e ‘stagionale’ da parte di coloro che promuovono – o tacciono – su forme meno evidenti di patriarcato aiuta a spiegare il fallimento della società nel suo insieme nel prendere una posizione ferma sui crimini contro le donne, per non parlare di prevenirli (…).
Misoginia e patriarcato non sono in alcun modo un’esclusiva dei palestinesi, soprattutto dei religiosi e dei conservatori.
Molti attivisti e politici di sinistra non esitano ad usare un linguaggio sessista, a dare implicite giustificazioni alle molestie sessuali, o a pretendere che la lotta per i diritti di genere non sia una priorità fintanto che saremo sottoposti all’Occupazione israeliana.
Come potremmo mai essere libere, in quanto donne e palestinesi, quando i leader della resistenza popolare sono coinvolti in atti di molestia sessuale e tutto questo viene messo a tacere?
Finché le donne palestinesi saranno costrette a tenere le loro richieste di liberazione di genere ai margini, e finché non sarà una grande parte della popolazione ad ammettere che le donne sono strutturalmente oppresse, noi continueremo ad essere uccise nell’impunità sociale e legale.
Un primo passo verso la sfida del lessico egemonico patriarcale locale e coloniale sarebbe smettere di usare il termine “delitti d’onore”, anche con le virgolette. Il suo uso legittima il concetto e fornisce il falso pretesto che sia “l’onore” il vero movente del delitto, quando in realtà è solo un modo per privare le donne di autonomia e dignità.
Il secondo passo è quello di parlare: silenzio vuol dire complicità.
Spazzare le verità scomode sotto il tappeto non servirà a nasconderle, ma solo a rendere la loro forza più brutale e intensificare il ciclo di violenza che ha letteralmente distrutto la vita di un gran numero di donne nel tempo.
Il terzo, e più importante, è di non aspettare che sia la polizia a proteggerci. Le donne dovrebbero proteggere se stesse organizzando gruppi di strada per combattere le molestie sessuali.